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Nokia e Deutche Telecom viaggiano a 1 Tbps

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Nokia Bell Labz, Deutsche Telecom e l’Università Tecnica di Monaco hanno condotto un test trasmettendo dati a 1 TB al secondo su rete ottica, grazie ad una nuova tecnologia.

I test condotti da Nokia Bell Labs, Deutsche Telecom e l’Università Tecnica di Monaco cercano di rendere le trasmissioni a 1 Tbps sostenibili in condizioni reali, non soltanto in laboratorio. La divisione ricerca & sviluppo di Nokia, Deutsche Telecom e i ricercatori universitari hanno realizzato una simulazione sul campo di trasmissione su fibra, raggiungendo velocità di 1 TB al secondo: non soltanto in condizioni ottimali, ma variando i livelli di traffico e di rumore sul canale.

Si è cercato di dimostrare come le reti ottiche ad altissima velocità possano funzionare in modo elastico, adattandosi alle circostanze reali. E così si è arrivati a sfiorare 1 TB su fibra ottica, ovvero la capacità di trasmissione massima (considerando il livello di compressione dei dati e quello di rumore) per un dato canale.

Tutto questo grazie ad una nuova tecnica di modulazione chiamata Probabilistic Constellation Shaping. Praticamente, invece di utilizzare i punti-costellazione della rete ottica in modo egualitario, con questo metodo si privilegiano quelli probabilisticamente meno soggetti a produrre rumore nella trasmissione. Quest’ultima può diventare fino al 30% più veloce, a parità di altre variabili.

Ci vorrà sicuramente del tempo prima di vedere le prime applicazioni commerciali di questo traguardo, ma quel che è certo è che aumenterà la domanda di maggiori capacità e velocità di trasmissione.  Le future reti ottiche infatti, secondo Nokia devono poter supportare capacità molto superiori, ma anche sapersi adattare alle condizioni del canale e alla domanda di traffico. Questo nuovo metodo porta diversi benefici ai service provider e alle aziende e consente alle reti ottiche di operare avvicinandosi al TB, garantendo la flessibilità e le prestazioni richieste oggi.

Venezuela: dove è finito il petrolio?

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Il petroglio, unica fonte di ricavi per il Paese, non sembra più essere presente nel sottosuole e dev’essere tagliata con altro greggio più leggero. Per questo il Paese è costretto ad importare greggio dagli Stati Uniti.

Il Venezuela non ha soldi, nè riserve monetarie per pagare ciò che importa, non ha una struttura industriale nè agricola per produrre ciò che le serve.

Il petrolio, unica sua fonte di ricavi, è ora diventato una condanna. Le quotazioni sono crollate e solo ora si sono stabilizzate a quota 45-50 dollari. Le caratteristiche del greggio venezuelano non si addicono inoltre alla commercializzazione diretta. La materia prima è densa e deve essere sottoposta a diversi processi prima di essere pronta per l’utilizzo. Questo comporta un aumento dei costi che avrebbe potuto essere arginato con investimenti per rendere gli impianti più moderni ed efficienti.

L’importazione di petrolio dagli Stati Uniti, più leggero e indispensabile per lavorare e rendere vendibile quello venezuelano è necessaria ma fa lievitare i costi al barile, nonostante quello Usa sia economicamente più conveniente rispetto a quello russo e nordafricano, ma allo stesso tempo fa anche aggravare i problemi sociali in cui è sprofondata la nazione. Infatti quel poco che si guadagna dal petrolio viene deviato per pagare debiti di stato e il petrolio statunitense.

Il governo Chavez inoltre, in carica per 7 anni, decise di nazionalizzare l’unico pozzo presente in Venezuela, l’unico pozzo in grado di fornire petrolio più leggero. Inoltre non c’è motivo di comprare una materia prima mediocre quando il mercato deve scontare un eccesso di offerta fino al 2017 e quindi prezzi bassi anche per le qualità migliori. Tutto questo ha reso il petrolio di Caracas fuori mercato mettendo KO la voce che copriva il 90% delle entrate di stato.

Qual è il risultato di tutto questo? Pin in caso del 16%, mancanza di beni di prima necessità, tagli su cure mediche e ospedali, crisi sociale e umanitaria.

Le ultime stime inoltre registrano un calo del 24% negli investimenti da parte delle società petrolifere, anzichè del 17%, come previsto a inizio anno. Un taglio, dunque, più consistente del previsto che fa intuire come le prospettive di un rialzo delle quotazioni siano ancora lontane.

Gli alti dividendi tornano di moda

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Difficile la ricerca al rendimento con mercati vicini ai massimi storici e la ripresa della volatilità.

Gli alti rendimenti tornano di moda ma, secondo gli analisti, è meglio non avventurarsi sui soliti nomi noti e tenere d’occhio la volatilità. Scegliere le azioni che danno uno yield superiore a quello dell’indice e che operano in settori stabili dovrebbe dare un po’ di protezione in caso di movimenti repentini degli indici, secondo gli analisti.

Nonostante la volatilità registrata sui mercati dall’inizio dell’anno, l’indice S&P500 ha mostrato rialzi settimanali vicini al 9%. La volatilità sul benchmark americano è passata da 12 punti a 16 la scorsa settimana. La volatilità, pur essendo inferiore alle medie storiche, è forte anche in Europa: circa 20 punti per il Dax di Francoforte o l’indice paneuropeo EuroStoxx 50. Sfiora i 27 punti per l’indice Ftse Mib Ivi (Implied volatility index). In pratica tutti viaggiano su livelli superiori al mercato svizzero o a quello londinese che hanno performance migliori da inizio anno.

Una delle cause di questa situazione è la politica della Banche centrali che da quasi otto anni, stanno inondando i mercati di liquidità. Questa strategia ha avuto un doppio effetto: nonostante i picchi, tiene la volatilità sotto controllo; nel frattempo riduce drasticamente i rendimenti ottenibili con gran parte delle attività finanziarie (questo vale soprattutto per i bond). E quando la prospettiva dei guadagni è limitata, gli investitori diventano più sensibili alle variazioni di prezzo anche quando sono più contenute rispetto al passato.

Dal punto di vista operativo, ci sono margini di manovra. La maggior parte dei segmenti che formano il mercato azionario hanno registrato rally, sopratutto i settori che normalmente danno cedole interessanti, come le utility. Per questo conviene andare a cercare in quelle aree dove le valutazioni hanno ancora margini di crescita: i beni di consumo difensivi, l’immobiliare, il farmaceutico e i finanziari. I nomi da scegliere sono quelli che trattano con uno sconto di almeno il 10% rispetto al rapporto prezzo/fair value”.

Ci sono però alcune norme di prudenza che da seguire. Ogni azione infatti, anche quella di migliore qualità e con il dividend yield migliore, può diventare ostaggio della volatilità molto più dei bond, per questo non dovrebbe essere usata per sostituire la quota di investimento del reddito fisso del portafoglio. I titoli con un alto dividendo perdono meno rispetto al resto del mercato nelle fasi di turbolenza, ma comunque possono far segnare ribassi importanti. Tra l’altro tengono a comportarsi male quando ci sono dei rialzi dei tassi. I bond invece sono più prevedibili.

McLaren nel mirino della “mela”

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Sembra che Apple stia valutando l’acquisizione di McLaren Technology Group, la società britannica famosa per essere proprietaria della scuderia di Formula 1 McLaren, una delle più vincenti del campionato di corse automobilistiche.

La notizia non è ufficiale, ma è stata data da diverse testate internazionali, a partire dal Financial Times, che ha ottenuto informazioni confidenziali da tre persone a conoscenza dei negoziati. I primi contatti tra le due aziende sarebbero iniziati alcuni mesi fa e dimostrano il crescente interesse da parte di Apple nel settore delle automobili. Ormai da anni si dice che il suo CEO, Tim Cook, abbia deciso di differenziare l’offerta della sua azienda soprattutto nel campo dei trasporti e dei sistemi di guida automatici.

Dopo la pubblicazione dell’articolo del Financial Times, un portavoce di McLaren ha smentito i rumors, dichiarando di non essere in trattative con Apple per potenziali investimenti.

Il gruppo McLaren ha un valore stimato intorno a 1,2 miliardi di euro, per Apple sarebbe quindi una delle più importanti acquisizioni degli ultimi tempi, dopo quella da 2,7 miliardi di dollari per il produttore di cuffie Beats nel 2014. McLaren produce e vende automobili di lusso, che arrivano a costare più di un milione di euro e ha un grande centro di ricerca, dove si sviluppano nuove soluzioni per migliorare la resa dei motori, la sicurezza dei veicoli e i sistemi di guida assistita e automatica. E’ proprio l’aspetto tecnologico a interessare ad Apple, con la prospettiva di entrare in possesso dei numerosi brevetti prodotti dal gruppo McLaren in questi ultimi anni. L’azienda ha inoltre centinaia di ingegneri specializzati che potrebbero essere impiegati per sviluppare le soluzioni a cui Apple sta lavorando per le sue automobili.

Apple in realtà non ha mai comunicato ufficialmente le sue intenzioni sulle auto, ma da anni circolano notizie circa un suo interesse nel settore. Nel 2014 l’azienda ha messo insieme un gruppo di lavoro con centinaia di progettisti e ingegneri, concentrandosi sulla progettazione di un nuovo tipo di automobile elettrica. Dopo due anni, però, le cose sembrano essere ancora piuttosto incerte: il gruppo di lavoro è stato ridimensionato, mentre prima dell’estate il coordinatore del progetto, Steve Zadesky, ha lasciato il proprio incarico. Il ridimensionamento ha fatto ipotizzare un cambiamento nella strategia di Apple e la versione prevalente è che non ci sia più l’intenzione di realizzare un’automobile, ma di sviluppare sistemi per la guida autonoma da sviluppare in collaborazione con le case automobilistiche.

In passato era stato ipotizzato un interesse di Apple nei confronti di Tesla, la società di Elon Musk che costruisce automobili elettriche e considerata dagli analisti come il produttore posizionato meglio per avere successo in un settore ancora agli inizi, e con molte incognite. Cook è sempre stato piuttosto evasivo circa questa eventualità, senza fornire indicazioni chiare sugli investimenti che Apple intende fare nel settore. L’acquisizione di McLaren, o l’avvio di una collaborazione con un cospicuo investimento, potrebbe dare qualche indicazione in più su cosa vuole fare Apple.

Ferrovie dello Stato pronte per la Borsa

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[su_note note_color="#e90a2c" text_color="#ffffff"]Le opzioni binarie e digitali sono vietate in Europa. I contenuti relativi ad opzioni restano in archivio a solo scopo informativo. Se non sei un cliente professionista, ti invitiamo a valutare il Trading Forex, CFD o Criptovalute[/su_note]

Il prossimo 28 settembre si conoscerà la quotazione in Borsa del gigante pubblico italiano Ferrovia dello Stato che si avvia al collocamento azionario nel 2017. L’amministratore delegato del gruppo, Renato Mazzoncini, rifiuta di assimilare la quotazione a una privatizzazione. Le Ferrovie fanno parte dell’identità nazionale italiana, si pensi a come sono stati importanti i binari d’acciaio e i treni a carbone nell’unificare l’Italia (e le altre nazioni europee) nell’Ottocento, e quale importanza abbia avuto e continui ad avere la rete delle Fs per l’economia e la società italiana. È una delle infrastrutture strategiche del Paese. Comunque si va verso una svolta parziale in direzione del mercato, e il passo è stato meditato a lungo.

Al momento il gruppo Fs è al 100% di proprietà del Tesoro. Mazzoncini ha detto che la quotazione sarà uno strumento industriale per rafforzare l’azienda e che sulle sue modalità c’è perfetto accordo con il ministro dell’Economia Padoan e con quello dei Trasporti Del Rio. Si stanno valutando invece le due opzioni della cessione di quote e dell’aumento di capitale ma il 28 settembre si saprà tutto anche sulla fusione tra Fs e Anas. Il ministro Delrio spiega che dopo aver studiato per due mesi si è sempre più convinto dell’utilità di mettere in sinergia due società forti come Fs e Anas. Mazzoncini ha aggiunto che si è molto lavorato per definire l’uscita di Anas dal perimetro della pubblica amministrazione.

Anche per questi motivi il nuovo piano industriale dovrà segnare una svolta. La novità più vistosa è la sua durata: non più cinque anni, che sono un orizzonte troppo piccoloma dieci anni, dal 2017 al 2026, perché in 10 anni è possibile introdurre una visione, secondo Mazzoncini.

Sul futuro piano industriale invece non ci sono molte anticipazioni. L’amministratore delegato si limita a dire che si fonderà su cinque pilastri e che tali pilastri saranno la mobilità integrata, la logistica integrata, le infrastrutture integrate, l’internazionalizzazione e la digitalizzazione. Secondo Mazzoncini, ci sarà un rilancio del settore merci con investimenti rilevanti.

Uno dei motivi per cui le Fs si quotano in Borsa è presentarsi con maggiore credibilità all’estero come gruppo orientato al mercato in vista di un’espansione internazionale. Dopo l’acquisto della società ferroviaria greca Trianose, le Fs stanno considerando l’acquisto della maggiore società di trasporto su gomma olandese, Qbuzz, appena messa in vendita dalle ferrovie olandesi. E a Innotrans le Fs hanno firmato un accordo con le ferrovie francesi e tedesche in vista dell’emissione di biglietti comuni.

Fiat Chrysler Automobiles e il fallimento di Takata

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Fiat Chrysler Automobiles

Problematico il recupero dei costi da parte di Fiat Chrysler Automobiles in caso di eventuale fallimento della giapponese Takata per i continui richiami di airbag.

Takata, società di componenti automobilistici con sede in Giappone, sarebbe, secondo indiscrezioni di stampa, a rischio bancarotta mentre proseguono le negoziazioni con alcuni fondi di private equity interessati al gruppo. Secondo le indiscrezioni, i candidati a rilevare la società, tra cui i fondi di investimenti Calyle e Kkr e il produttore nipponico di componentistica per auto, Daicel, starebbero considerando la possibilità di far ricorso a procedure fallimentari per alleggerire il carico debitorio. Sempre secondo queste ricostruzioni, entro la fine di ottobre Takata restringerà a uno o due i candidati per rilevarla.

Il fallimento di Takata, a cui hanno contribuito i continui richiami di circa 100 milioni di airbag a seguito di malfunzionamenti che hanno causato almeno 15 morti e decine di feriti, renderebbe problematico il recupero parziale dei costi di richiamo da parte di Fca e delle altre case produttrici coinvolte. Solo Chrysler ha dovuto richiamare più di 1,4 milioni di veicoli negli Usa e un altro mezzo milione circa nel resto del mondo.

Fca ha già predisposto accantonamenti legati ai problemi degli airbag Takata sebbene non sia chiaro se tali accantonamenti coprano i problemi emersi lo scorso 16 settembre, quando Fca ha avviato un richiamo su oltre 1,9 milioni di veicoli in tutto il mondo per risolvere il problema degli airbag.

Resta ancora da chiarire se i costi collegati a quest’ultimo richiamo siano già stati stanziati, visto che nel secondo trimestre erano stati già accantonati 568 milioni per i difetti degli airbag Takata o se ne saranno necessari altri nel terzo e quarto trimestre.

Banca Akros ed Equita hanno confermato il rating buy, la prima con un prezzo obiettivo a 10 euro e la seconda a 8,9 euro sul titolo Fiat Chrysler  Automobiles, che al momento a Piazza Affari segna la performance peggiore con un calo dello 0,87% a 5,685 euro, in un mercato in rialzo dell’1,2%.

Azioni Intesa Sanpaolo: è davvero un buon periodo?

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Nella giornata di ieri le azioni di Intesa Sanpaolo sono salite del 2.89% nell’ambito di una giornata di scambi positivi per l’intero indice FTSE MIB. Il titolo del gruppo torinese, unitamente alle altre azioni del comparto, ha tratto beneficio dai nuovi stimoli monetari stabiliti dalla Bank of Japan; anche se ad influenzare un andamento tanto positivo del titolo è stata anche la notizia dell’inclusione delle azioni Intesa nella European Large Caps Selected List di Kepler Cheuvreux.

OCSE: il mondo è nella trappola della crescita debole

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Scambi in rallentamento e distorsioni del sistema finanziario offuscano le prospettive della crescita globale. Il mondo, secondo l’OCSE, si trova in una trappola da crescita debole.

Queste considerazioni arrivano proprio nel giorno in cui la Banca del Giappone e la Fed sono chiamate a testare la propria politica monetaria confermando tassi bassi e quantitative easing.

Solo la Fed, grazie all’aiuto della politica di investimenti di Obama e otto anni di tassi bassi e acquisto di titoli è riuscita a ripristinare la crescita, ma anche la politica americana registra inflazione bassa e andamento del mercato del lavoro contrastante.

Bassa inflazione, rendimenti sotto zero e scarsa produttività sembrerebbero ormai diventati la normalità, una normalità di cui dobbiamo accontentarci. Il rischio è che dopo una crisi durata anni il rimbalzo non si verifichi più.

Anche il ministro dell’Economia Padoan ha osservato che in passato alla caduta dell’economia seguiva una forte accelerazione del Pil e che questo non accade oggi.
La risposta che dà l’Ocse è che ci troviamo di fronte al tipico gatto che si morde la coda: le continue “delusioni” in merito alla crescita economica a livello mondiale deprimono commercio, investimenti, produttività e salari e questo porta ad un revisione al ribasso delle aspettative di crescita. Così alla crescita debole si affianca la stagnazione. La popolazione del mondo sta diminuendo, il commercio mondiale sta frenando a causa del ritorno del protezionismo, rallenta la Cina che si avvicina sempre di più alla più modesta crescita coreana, rallenta l’area Euro e gli Stati Uniti che faticano a tenere alto il tasso di produttività. Le cause della stagnazione secolare potrebbero dipendere dall’eccesso di risparmio che stenta a trovare impieghi remunerativi: il risparmio abbonda per le politiche della banche centrali, ma anche per i grandi surplus commerciali in cerca di impiego, come quelli di Germania e Cina.

Spread BTp-Bund: i mercati penalizzano l’Italia

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Lo spread tra BTp e Bund è più alto di quello della Spagna, senza governo da 9 mesi. I mercati penalizzano l’Italia: come mai?

Lo spread BTp-Bund a 10 anni, ossia la differenza tra i rendimenti dei titoli di stato italiani e quelli tedeschi sulla scadenza decennale, si trova intorno ai 130 punti base (1,3%), ai massimi da fine luglio. I livelli non sono ancora allarmanti, ma la politica della BCE ha parecchia influenza sul trend.

Se si analizza però l’andamento dei Bonos spagnoli, si nota subito che, sulla stessa scadenza, il differenziale di rendimento con i Bund tedeschi è inferiore di poco ai 100 bp, ovvero i titoli di stato spagnoli a 10 anni rendono lo 0,3% in meno di quelli italiani, quando un anno fa rendevano lo 0,2% in più.

Come mai la Spagna risulta essere più sicura dell’Italia? Sembrai infatti che, nonostante Madrid sia senza un governo da nove mesi, avendo terminato due elezioni a vuoto e accingendosi a tornare alle urne il prossimo autunno, venga percepito come un paese meno rischioso rispetto all’Italia.

I dati elettorali in Spagna  hanno registrato l’assenza di una maggioranza guidata da forze politiche populiste quali Podemos; mentre in Italia avviene il contrario con caos delle legge elettorale, mancata ripresa dell’economia e referendum costituzionale è probabile che il governo Renzi possa uscire di scena lasciando il posto a non si sa chi.

Inoltre, le banche spagnole hanno accettato gli aiuti erogati dall’ESM, ricapitalizzandosi per una quarantina di miliardi nel 2012 e ponendo fine ai problemi sorti con la crisi finanziaria mondiale del 2008 e sostenendo l’economia spagnola. Le banche italiane invece risultano gravate da una montagna di crediti deteriorati, pari al 18% degli impieghi totali, alle prese con un capitale insufficiente, nonostante le operazioni plurimiliardarie attuate negli ultimi anni.

I mercati sono quindi poco interessati al fatto che gli spagnoli siano senza governo perchè l’economia del Paese è in crescita e non esiste un’alternativa alla maggioranza registrata dai popolari di Mariano Rajoy. Al contrario, se il premier Matteo Renzi perdesse il voto sulle riforme, andrebbe a casa, aprendo la strada alla vittoria di una forza anti-sistema e, in particolare, anti-UE come il Movimento 5 Stelle. Questo è il motivo per cui il mercato sta prezzando i nostri BTp meno dei Bonos.

Fitch punta gli occhi sull’Italia

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Con il nuovo piano della BCE la gestione dei crediti deteriorati per le banche italiane si fa ancor più urgente per Fitch Ratings. Il PIL dell’Italia è pari a +0,8% nel 2016 e +1% nel 2017.

Secondo Fitch il progetto di gestione dei crediti deteriorati da parte della BCE rafforza la necessità di un cambiamento radicale per le banche italiane.

Qualora il progetto di gestione della BCE sui crediti deteriorati delle banche venisse implementato, il settore bancario italiano sarebbe ancor più sotto controllo e aumenterebbero gli impegni dei governi e delle autorità della zona euro, secondo quanto dichiara in un report l’agenzia di rating Fitch.

La BCE vuole che le banche sofferenti abbiano obiettivi «ambiziosi» e «realistici» per la riduzione del credito deteriorato. Non riuscire a gestire questo contesto è una delle barriere che ostacola maggiormente la fiducia nel settore bancario in Italia.

Fitch prevede una crescita del PIL per l’Italia dello 0,8% nel 2016 e dell’1% nel 2017, al di sotto della media della zona euro.

L’agenzia di rating ha tagliato il rating in negativo sulle azioni di diverse banche italiane nel 2016, per lo più a causa di un calo costante della asset quality. Gli outlook negativi di Fitch preannunciano possibili downgrade, a meno che le banche italiane non prendano provvedimenti per ridurre le sofferenze.

Secondo Fitch inoltre, le iniziative del governo volte ad accelerare il recupero dei crediti in sofferenza porteranno ad una riduzione graduale dei NPL, ma è improbabile che si arrivi ad un miglioramento della qualità del credito nel breve termine.

I problemi delle banche italiane sono principalmente due: l’efficacia delle iniziative a soluzione del problema dei crediti deteriorati e la dimensione enorme del problema stesso.

I crediti deteriorati delle banche italiane hanno raggiunto i 340 miliardi di euro a fine giugno 2016, pari a circa il 20% del PIL in Italia. Al netto delle riserve, la cifra scende a circa il 10% del PIL.

Se il piano di salvataggio creato per sostenere la Banca Monte dei Paschi di Siena avrà successo, avremo un modello per le altre banche italiane che cercano di ripulire i propri bilanci. Tuttavia, l’operazione MPS è complessa e i rischi di esecuzione sono elevati.

Evitare il bail in sembra più difficile e urge trovare rapidamente delle soluzioni che evitino il fallimento dell’istituto bancario.

Negli ultimi mesi, il governo ha sostenuto un programma di cartolarizzazione per aiutare il trasferimento delle sofferenze al di fuori dei bilanci delle banche, incoraggiando la creazione di fondi specializzati e spingendo verso la modernizzazione del diritto fallimentare, nel tentativo di accelerare le lunghissime procedure di recupero crediti.

*I CFD sono strumenti complessi e presentano un alto rischio di perdita rapida di denaro per via della leva. Tra il 74-89% degli investitori perde denaro quando negozia CFD. Considera se puoi permetterti l'alto rischio di perdere il denaro investito.
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